lunedì 26 novembre 2012

Steve McCurry a Genova

Ci sono giorni in cui la cassaintegrazione è quasi una benedizione. Ti dimentichi di non avere più un ruolo sociale e ti godi unicamente il tempo regalato per fare quello che più ti piace. Come quando, una mattina di ottobre, ho deciso di andarmi a vedere la mostra di Steve McCurry a Palazzo Ducale. Ho scroccato un passaggio a chi un lavoro ce l’ha, sono arrivata in anticipo e ho combattuto il freddo e l’attesa con un cappuccino bollente e la lettura dei giornali. Al bar, di mercoledì mattina. Senza fretta. E poi la mostra.
 

Ovviamente, ero da sola. La prima ad arrivare e l’unica per tutto il tempo trascorso lì. La mostra, inutile dire, è meravigliosa. La prima sala è completamente buia, illuminata unicamente da ritratti coloratissimi di grandi dimensioni, in cui – come nella foto iconica di McCurry che tutti conosciamo – colpiscono gli occhi. Gli occhi della bambina afghana, quelli del nomade africano, del profugo, dell’immigrato, del bambino pakistano. Occhi che ti guardano da ogni lato, grazie all’allestimento della sala, e che ritornano a guardarti più volte. Occhi che ti chiedono conto di te stesso, della tua condizione di privilegiato e che ti costringono a riflettere sulla tua posizione rispetto a quella di colui o colei che stai fissando.

Da questa prima grande sala, dalla meraviglia e dallo stupore provocato dalla profondità del volto umano, si passa ad una piccola sala completamente riempita di foto di orrori, immagini di guerra, povertà, devastazione, immagini che riportano all’11 settembre, alla guerra del Kuwait, al terremoto in Giappone e a mille altre tragedie causate dalla mano dell’uomo. Lo shock si stempera nelle due sale successive, chiamate poesia e stupore, l’una riempita di infinite foto di piccole dimensioni che raccontano il mondo e la sua meraviglia e la successiva, in cui le foto dai colori vivissimi sono disposte su ogni muro, sul soffitto, in diagonale, di lato, in modo da costringerci a compiere più giravolte per vederle tutte, in una sorta di girotondo che celebra la vita, nella sua infinita complessità. La voce di McCurry accompagna tutta la mostra, grazie all’audioguida, e spiega alcune foto selezionate. Simbolo di tutta la mostra, per me, la foto di una donna indiana che chiede l’elemosina nella pioggia, dietro il vetro di un taxi, vetro che divide - nelle parole di Steve McCurry - tutti noi, occidentali privilegiati, dal resto del mondo in difficoltà.


3 commenti:

  1. Spero di riuscire ad andare a questa mostra prima che finisca: deve essere davvero una bella esperienza!! :)

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    1. Se riesci, non perdertela! L'allestimento è bellissimo e le foto sono stupende. Davvero, vale la pena.

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  2. Un po' grazie al tuo blog, un po' grazie all'appuntamento che avevo con Genova ieri e un po' perché la fotografia mi piace assai... sta di fatto che ci sono andato e devo dire che mi è piaciuta un bel po'. Vorrei citare anche Peter Bottazzi che con le sue scelte ha progettato un percorso espositivo veramente all'altezza; rimanere da solo nella prima sala con una macchina fotografica sarebbe stata una cosa veramente emozionante!

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